La violenza ostetrica
“È violenza ostetrica l’appropriazione del corpo e dei processi riproduttivi della donna da parte del personale sanitario, che si esprime in un trattamento disumano, nell’abuso di medicalizzazione e nella patologizzazione di processi naturali avendo come conseguenza la perdita di autonomia e della capacità di decidere liberamente del proprio corpo e della propria sessualità, incidendo negativamente sulla qualità della vita della donna”. La prima definizione giuridica di violenza ostetrica viene introdotta nel 2007 in Venezuela, nella Ley Orgánica sobre el Derecho de las Mujeres a una Vida Libre de Violenza. In seguito se ne sono occupati l’Onu, l’Oms e la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. E in Italia? Nel nostro paese esiste una proposta di legge per introdurre il reato di violenza ostetrica e disciplinarne la fattispecie, ma è ferma in Parlamento dal 2016. La giurisprudenza degli ultimi anni, comunque, si è espressa equiparando la violenza ostetrica al reato di violenza privata.
Nel concetto di violenza ostetrica rientrano molteplici comportamenti posti in essere dal personale sanitario, tra cui l’abuso fisico e verbale, il ricorso a procedure mediche cui la donna non ha prestato il consenso, la negligenza nell’assistenza al parto e al post parto.
La percentuale di donne che raccontano di aver subito violenza ostetrica è spaventosamente alta: secondo una indagine Doxa si attesterebbe al 21%, pari a circa un milione di donne italiane che hanno partorito negli ultimi 14 anni. Per il 6% di queste donne l’esperienza è stata così traumatica da averle portate a decidere di non avere più figli. Non solo: quasi una mamma su due racconta di essere stata vittima di episodi che, se non riconducibili alla definizione di violenza ostetrica, sono stati senza dubbio umilianti.
I numeri tuttavia non restituiscono le reali dimensioni del fenomeno: la tragedia del Pertini, l’ospedale dove nei primi giorni di gennaio è morto un neonato, pare soffocato dalla mamma che, stremata, si era addormentata mentre lo allattava, ha scoperchiato un vero e proprio vaso di Pandora. “Quando, dopo un parto particolarmente traumatico, ho chiesto di tenerla qualche ora al nido, mi è stato risposto che non era un parcheggio”, “quella donna potevo essere io: più volte mi sono addormentata mentre allattavo mio figlio. Ero devastata, chiedevo aiuto ma non arrivava nessuno”. “Nel mio ospedale il nido non c’era: sono stata costretta a tenere il bimbo con me subito, anche se avevo tanto bisogno di riposarmi”. Le testimonianze di questo tenore arrivate ai giornali, alle trasmissioni radio e tv, alle attiviste, sono state migliaia. Molte anche le iniziative di solidarietà, tra cui la petizione per richiedere che in tutti i reparti maternità sia garantito l’accesso a un accompagnatore h24, così come accade in tanti reparti a pagamento (se non può essere garantita l’assistenza sanitaria, che almeno sia consentita quella affettiva). Io stessa, nel mio piccolo, ho preso coscienza di essere stata una vittima. Dopo essere stata spinta ad accettare un travaglio indotto senza alcuna necessità medica e un parto terminato con una emorragia in seguito a profonda lacerazione interna, sono stata abbandonata a me stessa. Nonostante la vicinanza di mio marito, non dimenticherò mai l’umiliazione, la mortificazione, il senso di abbandono di quei primi giorni in ospedale. Non dimenticherò mai la disperazione di avere accanto a me mia figlia che piangeva nella culla e la consapevolezza di non avere la forza di occuparmene.
Di fronte a una tale moltitudine di voci, colpisce il silenzio delle strutture sanitarie e delle istituzioni. Nessuno si è fatto carico del problema. I pochi medici che si sono espressi sulla tragedia del Pertini e sul fenomeno della violenza ostetrica lo hanno fatto citando le linee guida dell’Oms, che incoraggiano la simbiosi mamma/bambino fin dai momenti immediatamente successivi al parto, o adducendo la più amata delle scuse, la carenza di personale sanitario. Non è mancato neanche chi, come il ginecologo Salvo di Grazia (50k follower su Twitter, editorialista del Fatto), ha affermato con incredibile saccenza che la violenza ostetrica non esiste e che, se esiste, si tratta di episodi isolati. Secondo il personale sanitario, insomma, non c’è alcun fenomeno di cui occuparsi, come se le migliaia di donne che hanno raccontato la loro testimonianza fossero vittime di un raggiro collettivo o “irretite”, come lo stesso dottor Di Grazia ha affermato.
Fermo restando quindi che non si tratta di un problema di carenza di personale - non solo almeno- e che, con buona pace di Di Grazia, la violenza ostetrica esiste eccome, vale la pena soffermarsi un momento sulle famose linee guida dell’Oms a cui gli ospedali si aggrappano per giustificare la mancanza di assistenza alle mamme nel puerperio: se è vero che incoraggiano la simbiosi mamma bambino e in particolare il rooming in (vale a dire la pratica in base alla quale il neonato viene messo in camera con la puerpera) con lo scopo di favorire l’allattamento al seno, va ricordato che l’Oms è un organismo internazionale le cui direttive sono universali e si rivolgono, quindi, anche a tutti quei paesi del terzo mondo dove reperire alimenti alternativi al latte materno è tutt’altro che scontato. Non a caso le stesse linee guida consigliano di proseguire l’allattamento fino ai due anni del bambino e oltre.
In Italia non è certo così, senza contare che generazioni di neonati sono cresciuti felicemente allattati al seno anche quando non esisteva il rooming in e la donna, dopo il parto, si riposava. L’impressione, quindi, è che si faccia passare per teoria pedagogica ciò che, banalmente, è più funzionale all’organizzazione ospedaliera, ignorando la puerpera e le sue esigenze. E quel che è peggio, colpevolizzandola quando non è in grado di occuparsi di un neonato, come se, peraltro, la capacità di prendersi cura di un bambino fosse innata e non un insieme di tentativi alla cieca. Soprassiedo, poi, sulla crociata dell’allattamento al seno, come se dalla buona riuscita di esso dipendesse il futuro dell’umanità o più banalmente la felicità del legame mamma/figlio. La pretesa di insegnare alle donne come essere madri sulla base dei dettami di un organismo internazionale è, semplicemente, una scemenza.
Anche perché ogni tanto bisognerebbe ricordare ai fanatici della tetta per forza, del rooming in, della mamma attaccata al bimbo perché “la natura vuole così”, che quella stessa natura a loro tanto cara è quella per cui un mammifero deve mettere al mondo dieci cuccioli perché la metà morirà prima di raggiungere l’età adulta, è la stessa natura che spinge il maschio di molte specie a divorare la prole per evitare di essere spodestato. Se è questa la natura a cui vogliamo aspirare, torniamo a vivere sugli alberi e a camminare a quattro zampe.
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